Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense
Fig.1, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Immagine del retro della tavola.
Fig. 2, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Dettaglio della firma dell’artista.
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Cat. 4. Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori (nei pennacchi san Giovanni Battista e il profeta Isaia?)

Artista Francesco di Neri da Volterra (doc. dal 1339 al 1377)
Titolo Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori (nei pennacchi san Giovanni Battista e il profeta Isaia?)
Datazione ca. 1355-1360
Supporto Tempera e oro su tavola
Dimensioni 178 x 96,5 x 3 cm; con cornice 196 x 117,5 x 8,5 cm; superficie dipinta 163,5 x 89,3 cm
Collocazione Modena, Galleria Estense, Sala 3
Inventario R.C.G.E. 488
Iscrizioni E Timbri FRANCISHUS NERII D(e) VVLT(er)RI(S) D(e)I GR(ti)A ME PI(n)XIT (nel pavimento in primo piano); AVE MARIA GRATIA PLENA DOM (nel nimbo della Vergine); ECCE AGNUS DEI/ ECCE QUI TOLLI(t) PEC( c )ATA (Gv 1, 29; nel cartiglio di san Giovanni Battista); E[…]TE […]M/ […]NE (D)O(mi)NATO( R )EM T[…] (Is 16, 1; nel cartiglio di Isaia?). Sul retro vi è un sigillo ottocentesco abraso, nonché un’etichetta su cui è vergato a matita rossa il numero 67 (inventario del 1866); il numero 11 è iscritto su un tassello a coda di rondine; vi sono altresì vari timbri della Soprintendenza alle Gallerie modenesi.
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Scheda curatoriale a cura di Mauro Minardi


INTRODUZIONE

La Madonna con il Bambino in trono costituisce lo scomparto centrale di un polittico di cui è al momento noto un solo altro elemento raffigurante San Giovanni evangelista (Venezia, Galleria di Palazzo Cini). Essa rappresenta la sola opera, tra quelle oggi note, firmate da Francesco di Neri da Volterra, che, documentato a Pisa a partire dagli anni quaranta del Trecento, si impose come la maggiore personalità attiva in questo contesto nel terzo quarto del secolo.

Non è nota l’origine del complesso frammentario, una delle commissioni più impegnative e probabilmente di maggior rilievo assolte dal maestro, alla quale dovettero prendere parte i donatori, dall’identità sconosciuta, effigiati in primo piano. Sebbene Francesco di Neri abbia inviato le sue tavole d’altare in varie località della Toscana occidentale, essa può in termini indiziari collegarsi al territorio di Pisa, considerata la citazione della Madonna con il Bambino in due polittici di Cecco di Pietro, altro rilevante esponente della pittura pisana del secondo Trecento.

Così come a Pisa si incrociarono gli esiti figurativi degli artisti senesi e fiorentini, allo stesso modo la tavola manifesta un’eguale adesione ai rispettivi canoni formali: alcune scelte compositive, la minuziosa operazione delle superfici dorate e le inarcate posture degli angeli rimandano a precedenti e coeve opere senesi, mentre la voluminosa e statuaria presenza fisica della Vergine assisa tradisce, al pari del San Giovanni evangelista oggi a Venezia, la conoscenza del linguaggio del fiorentino Taddeo Gaddi – presente altresì a Pisa tra quinto e sesto decennio. Ne sortisce una brillante, armoniosamente fusa commistione di influenze figurative, che fa di questa Madonna, realizzata attorno al 1360, uno dei risultati più significativi conseguiti dall’artista volterrano.

STORIA E ICONOGRAFIA

Storia dell’opera

Provenienza

Firenze, collezione Scarampi di Pruney (?); Mercato antiquario; Modena, Galleria Estense in Palazzo Ducale, dal 1863-1864;1 Modena, Galleria Estense in Palazzo dei Musei, dal 1894.

Secondo una tradizione verbale non verificabile, riportata da Roberto Longhi, la tavola in esame e quella raffigurante San Giovanni evangelista (Venezia, Galleria di Palazzo Cini, Fig. 3), che un tempo le era a fianco, appartennero alla stessa collezione, quella dei marchesi Scarampi di Pruney a Firenze, in cui a metà Novecento si trovava il dipinto oggi a Venezia.2 Nel 1863 essa venne acquistata per la cifra di 2000 lire dal direttore Adeodato Malatesta presso un antiquario di nome Giusti.3 Adolfo Venturi (1882) ritiene certa la provenienza da una raccolta toscana, in virtù del sigillo in ceralacca apposto a tergo (Fig. 1), in cui egli scorgeva la presenza di alcune palle medicee, incorniciate tutt’intorno dall’iscrizione “Conservazione”. Tale sigillo si presenta oggi così abraso da risultare pressoché illeggibile. Se la parola letta dal Venturi fosse corretta, si dovrebbe identificare il marchio come quello dell’Ufficio per la Conservazione dei Monumenti di Belle Arti del Ducato di Lucca, istituito nel 1819 da Maria Luisa di Borbone.4 Le palle medicee e la possibile provenienza da Firenze, e in precedenza da Pisa, orientano invece verso l’Ufficio delle Revisioni e Sindacati del Granducato di Toscana.5

La destinazione originaria del polittico al centro del quale figurava la Madonna della Galleria Estense è probabilmente circoscrivibile nel territorio di Pisa, come suggerisce la citazione quasi letterale dello scomparto principale nel complesso dipinto da Cecco di Pietro per l’abbazia di San Girolamo ad Agnano (oggi a Pisa, Palazzo Blu), in particolare per quanto attiene alla posa della Vergine e del Bambino, quest’ultimo perfettamente replicato (Fig. 4).6 Ciò è coerente con l’attività di Francesco di Neri da Volterra, che a partire dai primi anni quaranta del Trecento sino alla morte (occorsa tra il 1377 e il 1386) si svolse in prevalenza a Pisa, benché in questo lasso di tempo egli abbia intrattenuto rapporti con la città natia (1363), Lucca (1348-1358) e San Gimignano (1352), ove inviò i suoi dipinti d’altare, entro un raggio di committenza che annovera sedi dell’ordine camaldolese, domenicano e agostiniano, nonché chiese cattedrali come quella pisana.7 Nessuno tra i polittici documentati è sopravvissuto;8 né nel caso in esame l’individuazione della destinazione antica è agevolata dalla presenza di donatori in primo piano, al momento non identificabili.

Configurazione del polittico originario

Come riconosciuto da Longhi (1953), il San Giovanni evangelista della Galleria di Palazzo Cini a Venezia (inv. VC 7122) costituiva uno scomparto, posto per chi guarda sul lato destro, del complesso smembrato, il solo attualmente collegabile a esso con sicurezza.9 Il dipinto condivide con la Madonna qui discussa il tipo di carpenteria e la tonalità verde della pedana sulla quale si erge il santo. L’altezza di 158,5 cm, inferiore di quasi 20 cm rispetto al pannello di Modena, è confacente alla tipologia dei polittici di area pisana del terzo quarto del Trecento, di cui offre testimonianza il sopra citato esempio di Cecco di Pietro già ad Agnano. Esso si pone sulla scia di quello in predicato anche per ciò che concerne il tipo di centine dei pannelli maggiori,10 l’ornamentazione in gesso rilevato e dorato dei pennacchi e i nimbi iscritti. Analogamente a quanto visibile in quest’ultimo caso, così come nei Santi Benedetto e Romualdo dello stesso Francesco di Neri (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), gli scomparti laterali erano sormontati da coppie di santi a mezzo busto, che nel complesso in esame, considerato l’esiguo scarto in altezza tra la Madonna e San Giovanni evangelista, probabilmente si elevavano rispetto alla prima, come si osserva nel coevo pentittico con San Paolo in trono, angeli e santi già ascritto al pittore (Venezia, Galleria di Palazzo Cini), proveniente da Pisa o Volterra.11 Da queste sezioni dell’opera vanno escluse le tavole raffiguranti Santi e profeti del Museum of Fine Arts di Boston, in cui compare l’evangelista Giovanni, già previsto nel registro principale,12 e probabilmente quelle con Sant’Andrea e San Paolo (già Londra, Christie’s), la cui larghezza non sembra pienamente compatibile con lo scomparto veneziano.13 Sia il polittico di Agnano sia quello di San Paolo della Galleria di Palazzo Cini (senza dimenticare il pentittico di Taddeo Gaddi in San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia)14 mostrano sopra la Madonna in trono l’immagine bipartita dell’Annunciazione, che è quindi tra i possibili soggetti da contemplare nel secondo ordine dell’opera da ricostruire, che si caratterizza peraltro per i molteplici riferimenti all’Incarnazione e alla venuta del Messia presenti nelle iscrizioni della tavola della Galleria Estense e di quella veneziana (cfr. Iconografia). La particolarità dei pennacchi figurati che si osserva nella Madonna era stata inaugurata dal maestro volterrano nei due menzionati Santi del Museo Nazionale di San Matteo, con creature angeliche che distinguono anche lo scomparto centrale del polittico Cini.

Gli esempi di riferimento qui indicati permettono quindi di configurare un complesso in forma di trittico, o più probabilmente di pentittico, organizzato su almeno tre registri ed eventualmente provvisto di predella e di contrafforti laterali.15 Le dimensioni della Madonna e del San Giovanni di Venezia risultano a paragone maggiori, ponendosi altresì come le più estese nel catalogo di Francesco di Neri.16 Se il complesso appariva come un trittico, la larghezza non sarebbe stata inferiore ai 215 cm; se si fosse trattato di un pentittico, essa avrebbe superato i 330 cm, di contro ai 260 cm di quella di Agnano17 e ai 272 cm di quella del polittico di San Paolo Cini. Le dimensioni complessive renderebbero così idonea la provenienza dall’altare maggiore di una chiesa, piuttosto che da una cappella laterale.

È plausibile ipotizzare che, malgrado lo stato estremamente lacunoso in cui ci è giunto, il polittico fosse tra i più imponenti compiuti da Francesco di Neri, frutto di una commissione ragguardevole alla quale concorsero i donatori effigiati in primo piano, di cui offrono altresì testimonianza gli aspetti ornamentali, che superano gli esiti figurativi sinora noti del pittore. Se destinato al territorio pisano, esso documenta l’imporsi dopo la metà del Trecento del polittico monumentale a figure intere, ad alcuni decenni di distanza rispetto a quello a figure sedute eseguito da Lippo Memmi per la chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno.18 Si tratta, pertanto, di un’opera indicativa nella storia dell’evoluzione dei dipinti d’altare in questa zona della Toscana, che vede il superamento della tipologia del complesso a figure a mezzo busto che, con il prototipo licenziato da Simone Martini per l’altare maggiore della chiesa di Santa Caterina (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), aveva riscosso un’ampia fortuna. Lo stesso Francesco di Neri aveva dipinto nella fase iniziale del suo percorso un polittico con Santi a mezzo busto (di cui restano due elementi divisi tra Ploaghe e una collezione privata), orientandosi nello stesso arco di tempo verso un primo esempio di polittico con santi a piena altezza, di cui sono importante testimonianza i Santi Benedetto e Romualdo del Museo Nazionale di San Matteo, già nella chiesa di San Zeno a Pisa.19 Occorre aggiungere che, quand’anche realizzato per un diverso centro della Toscana occidentale, il complesso con al centro la Madonna di Modena venne confezionato nella bottega pisana del pittore.

Tecnica di esecuzione e stato di conservazione

Il supporto, oggi leggermente imbarcato, è costituito da tre assi, di cui quella centrale di larghezza pari a 64 cm circa e due laterali ampie 16 cm.20 Il retro, ove sono visibili i segni della lavorazione del legno (Fig. 1), si caratterizza per una stesura omogenea di un materiale bianco, di natura gessosa, presumibilmente applicato allo scopo di regolarizzare i difetti del legno e a chiusura dei fori di sfarfallamento. La presenza di stucco non consente di verificare le eventuali tracce lasciate da un pregresso sistema di contenimento e di collegamento con altri scomparti, che doveva essere previsto in virtù della funzione del dipinto quale elemento centrale di un polittico. Sul verso si individuano, lungo i margini, alcuni fori di chiodi chiusi e il segno di una possibile traversa orizzontale che corrisponde, sul recto, a lacune poste alla medesima altezza di circa 84 cm dal basso. Quattro tasselli a doppia coda di rondine sono inseriti lungo la commettitura di sinistra.

Fig.1, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Immagine del retro della tavola.

Gli strati pittorici risultano particolarmente ricchi e si registra l’impiego esteso di foglia metallica. La firma del pittore è stata altresì iscritta in caratteri dorati, entro un campo delimitato da due linee parallele (Fig. 2). Il fondo è realizzato con una doratura a guazzo su una stesura di bolo rosso-arancio, visibile nei punti ove essa è lacunosa. Si osservano varie tecniche di punzonatura, incisioni e bulinature della lamina d’oro, in corrispondenza dei nimbi, dei margini perimetrali superiori e delle vesti, doviziosamente ornate secondo procedimenti legati in specie alle consuetudini tecniche del Trecento senese.21 Questa lavorazione è stata concepita dal pittore con la finalità di giungere a effetti variegati negli scomparti che componevano il polittico originario: il San Giovanni evangelista della Galleria di Palazzo Cini a Venezia (Fig. 3) evidenzia, infatti, un trattamento più complesso del fondo dorato, animato da dischi intrecciati e percorso lungo il perimetro da una banda a ramages. In alcuni elementi, quali il cuscino e il tessuto che riveste la seduta nella tavola modenese, le stesure verdi e rosse sono semitrasparenti e si sovrappongono alle finiture dorate, sebbene tale procedimento risulti solo in parte apprezzabile a causa dell’alterazione dei materiali originali. La lacca azzurra applicata sull’abito del Bambino è oscurata con lo scopo di conferire effetti di ombra. Negli incarnati la pellicola pittorica è piuttosto impoverita, lasciando intravedere la preparazione a verdaccio e il chiaroscuro del disegno preparatorio. Ciò è specialmente visibile nella Madonna con il Bambino e nel Battista, mentre nei volti dei donatori la pittura appare più integra e corposa. Il manto della Vergine è stato ridipinto con una tecnica a mimetico e alcuni ritocchi sono alterati nella cromia.

Fig. 2, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Dettaglio della firma dell’artista.

Il supporto include lungo i bordi una sottile cornice intagliata, solidale alla tavola (che amplia quindi il suo spessore a 5 cm), ricoperta di una foglia d’argento meccata. Intorno a essa corre una seconda cornice in legno di conifera, apposta probabilmente al momento dell’ingresso del dipinto nella Galleria.

Iconografia

La Madonna è assisa su un faldistorio la cui sagoma è definita dal drappo che lo riveste.22 Il nimbo presenta l’incipit dell’Ave Maria23 ed è incorniciato da un cerchio di stelle su punte dorate a imitazione di raggi (come altresì visibile intorno alle teste di Gesù e degli angeli), interrotte in alto in corrispondenza della centina. Il Bambino seduto sulle sue ginocchia rivolge attentamente la propria attenzione all’uccello posato sul polso destro della madre, che per i colori appare essere un cardellino.24 Il volatile veicola un’ampia simbologia, con particolare attinenza alla Passione di Gesù, qui allusa dal piccolo frutto rosso (probabilmente una ciliegia) che riceve dall’infante, nonché dalla macchia rossa che in genere compare sul capo, stigma di una goccia del sangue di Gesù crocifisso che gli avrebbe segnato il becco nel tentativo di estrarre una spina della corona.25 L’origine latina del suo nome, carduelis, fa riferimento secondo l’Etymologiarum di Isidoro di Siviglia al cardo irto di spine di cui si ciba.26 Il gruppo sacro è adorato da due coppie di angeli in volo, poste di profilo, e da tre figure di laici inginocchiate e oranti in primo piano, rappresentate in proporzioni ridotte e in abiti contemporanei: un personaggio maschile sulla sinistra e una donna con una fanciulla (ossia la consorte e la figlia) a destra. I pennacchi superiori sono colmati da due figure che rivolgono lo sguardo alla Madonna con il Bambino, associandovi il gesto levato della mano destra: san Giovanni Battista sul lato sinistro e un vegliardo nimbato, già interpretato come il Padre Eterno o un profeta,27 che la proposta di decifrazione della lacunosa iscrizione del cartiglio avanzata in questa sede tende a individuare in Isaia. Il testo, posto su due righi, dovrebbe leggersi, conformemente al passo biblico (Is 16, 1), “Emitte agnum, Domine, dominatorem terrae”. Ciononostante, il profeta compare generalmente con altra didascalia identificativa (Is 7, 14), che preannuncia il concepimento da parte della Vergine dell’Emmanuele. La menzione dell’agnello si pone a specchio del filatterio esibito dal Battista e il “giudice sollecito del diritto e pronto alla giustizia” di cui parla il prosieguo del brano sopra citato è nondimeno una prefigurazione della venuta del Cristo.28 All’Incarnazione si riferisce il testo che corre lungo il nimbo di san Giovanni evangelista (Gv 1, 14) nello scomparto della Galleria di Palazzo Cini a Venezia.29

Attribuzione, commento critico e datazione

L’opera iniziò ad attirare l’attenzione degli esegeti allorché entrò in galleria e la firma del suo autore venne sciolta da Andrea Cavazzoni Pederzini (1863) in “Franciscus Nerii de Vultrio” . Malgrado l’equivoco circa l’origine ligure del pittore, l’erudito modenese coglieva le componenti figurative di ispirazione senese del dipinto e identificava l’artista con il Francesco di Neri che, secondo quanto riportato nel tardo Settecento da Alessandro Da Morrona, aveva dipinto nel 1343 un polittico per la chiesa di San Michele in Borgo a Pisa30 (ovvero Francesco di Neri da Volterra). La paternità di questo Francesco Neri da Voltri venne accettata da Federigo Alizeri (1870), Adolfo Venturi (1882) e Giovan Battista Cavalcaselle (Cavalcaselle, Crowe 1887), che espressero le loro osservazioni sull’identità biografica e stilistica della personalità così coniata. Secondo il primo era in dubbio se per Voltri dovesse intendersi il toponimo ligure o una località in Toscana, mentre il linguaggio del maestro oscillava “tra l’Orcagna e i Sanesi” operanti a Pisa; Venturi aggiungeva che in quest’ultima città vi era una tavola ritenuta di Francesco di Neri da Volterra, senza specificare di quale si trattasse; Cavalcaselle ipotizzava che dopo una prima formazione ligure Francesco si fosse trasferito a Pisa e a Firenze, come suggerivano i caratteri formali della tavola modenese, con le sue “forme piuttosto carnose e tondeggianti”, indice di una datazione alla seconda metà del Trecento.31 È da notare come in un’altra sezione della loro opera Crowe e Cavalcaselle avessero segnalato l’attività di Francesco da Volterra nel Camposanto e nel Duomo di Pisa,32 senza immaginare che questi fosse un’unica persona con Francesco da Voltri.

Nella sua Storia dell’arte italiana Venturi (1907) stabilì definitivamente, grazie alla corretta lettura dell’iscrizione fornita da Giulio Bariola, la paternità di Francesco di Neri da Volterra, specificando come si dovesse a Pietro Toesca l’identificazione del pittore con l’omonimo maestro attivo nel Camposanto. Basile Khvoshinsky e Mario Salmi (1914) mettono in risalto l’adesione stilistica ai canoni di Taddeo Gaddi, come riaffermato dalla maggior parte degli studi posteriori, e di Andrea da Firenze. Pietro Toesca (1951) pone l’accento sui “drappi d’oro operati in sottile gusto senese” e sulle figure angeliche affini a Bartolo di Fredi, seppur non manchino accenti fiorentini derivati a suo avviso dal contatto con Bernardo Daddi. Per Roberto Longhi (1953) la tavola modenese, da datarsi insieme al pannello compagno della collezione Cini “verso il ’60-’70”, è testimonianza della formazione fiorentina di Francesco di Neri, “notevole pittore”, come avrebbe poi ribadito Enzo Carli (1961). A giudizio di quest’ultimo le eleganze lineari di matrice senese qui visibili furono mediate da Francesco Traini, di cui il maestro volterrano si mostra al corrente nella caratterizzazione fisiognomica delle figure. Di origine senese appare altresì il gusto ornamentale proprio dei tessuti, che Miklós Boskovits (1967) paragona, al pari della sagoma del gruppo principale, al polittico di Niccolò Tegliacci e Luca di Tommè della Pinacoteca Nazionale di Siena (1362). Una cronologia negli anni sessanta viene più oltre confermata da Federico Zeri e Mauro Natale (1984); più specificamente sul 1360 si orientano Gaudenz Freuler (1991) e Rolf Bagemihl (1994), per il quale l’esecuzione potrebbe altresì antecedere di alcuni anni (1996), sino a scendere al 1350 circa a parere di Stefan Weppelmann (2008) e di Linda Pisani (2010). Federica Siddi (2013, 2016) ha collocato l’opera nel momento di passaggio tra la prima fase dell’attività del pittore maggiormente sollecitata dall’influenza di Traini e quella in cui prendono progressivamente forza gli influssi di marca fiorentina, collocandola quindi nella seconda metà degli anni cinquanta.

L’unicità della tavola in seno al percorso di Francesco di Neri da Volterra, in cui la critica ravvisa il il maggiore esponente della pittura a Pisa nella seconda metà del Trecento, deriva dal fatto di essere la sola firmata tra quelle sopravvissute:33 essa si pone quindi quale essenziale punto di riferimento per la ricostruzione della sua attività, che non presenta opere datate a noi pervenute. Punto di confluenza tra le esperienze di fonte senese, che dovettero alimentare la prima educazione dell’artista, e gli innesti fiorentini della piena maturità, il dipinto rivela le prime componenti nell’idea di sostituire il trono in cui siede la Vergine con un faldistorio ammantato da un drappo dorato. Tale soluzione era stata inaugurata da Simone Martini nel campo principale e nella predella del San Ludovico da Tolosa del Museo di Capodimonte a Napoli e rinverdita da Ambrogio Lorenzetti nella piccola Maestà di della Pinacoteca Nazionale di Siena, ove la seduta è analogamente ricoperta da un cuscino con nappine angolari. È importante notare come a Pisa il faldistorio aveva ospitato santi e apostoli del pentittico di Lippo Memmi già in San Paolo a Ripa d’Arno. Gli angeli in volo collocati in pose arcuate a fianco della Vergine sono un vistoso omaggio alla perduta Assunta affrescata da Simone in Porta Camollia a Siena, fonte di molteplici interpretazioni nella pittura locale del Tre e Quattrocento. Nella bandinella di Santa Lucia (Pisa, Palazzo Blu, Fig. 4), databile verso la fine dell’attività di Francesco, gli angeli hanno abbandonato, negli atteggiamenti e nelle decorazioni degli abiti, tali più spiccate referenze senesi, accogliendo gli stimoli provenienti dalla pittura di area orcagnesca. Il rapporto con Siena contempla, pertanto, sia gli aspetti inerenti il trattamento delle lamine dorate e il peculiare linearismo sia quelli propriamente compositivi.

Il dialogo con le ispide caratterizzazioni anatomiche di Traini è meno cogente rispetto ai due Santi del Museo Nazionale di San Matteo, in confronto ai quali il frastaglio di pieghe del manto della Madonna appare meno abbondante, mentre gli squadri sintetici, sprofondanti in anse quasi geometriche, sono un preludio di quelli della Santa Lucia in trono nel sopra citato stendardo oggi a Palazzo Blu. La Madonna con il Bambino di collezione fiorentina, resa nota da Boskovits,34 condivide con il dipinto di Modena la corposità del piccolo Gesù abbigliato con una tunica dall’ampia scollatura, ma si rivela ancora impregnata di componenti trainesche nelle anatomie e negli effetti chiaroscurali; l’altra, ad affresco, nella chiesa di Santa Maria dei Galletti a Pisa preannuncia altresì quella in esame, senza condividerne tuttavia gli ampi volumi.

A fianco delle solide figure di Maria e dell’evangelista Giovanni si imprime il movimento dinamico del Battista e del possibile Isaia. Il volto di quest’ultimo si apparenta a quello del Santo vescovo della collezione Alana e dei Santi Paolo e Andrea già transitati presso la sede londinese di Christie’s;35 il terzo sorregge inoltre un volume che mostra la stessa legatura del San Giovanni Cini.

La “squadrata larghezza e saldezza di forme” e la “sobria continuità di profili” (Carli 1994) della Madonna e del San Giovanni evangelista di Venezia vanno letti, come specificato da Freuler, quale aggiornamento sui polittici di San Giovanni Fuorcivitas a Pistoia e, in modo particolare, di Santa Felicita a Firenze di Taddeo Gaddi, portati a termine nella prima metà degli anni cinquanta; del secondo lo scomparto della Galleria di Palazzo Cini assume in maniera evidente la cadenza lineare dei panneggi. È infatti forse dopo il 1350 che, secondo una parte degli studi, il maestro fiorentino attese alle storie di Giobbe nel Camposanto pisano,36 catalizzando quindi ulteriormente l’attenzione di Francesco. Tali referenze condurrebbero a una datazione dell’opera in predicato nel pieno del decennio, che si conclude con la tavola raffigurante la Madonna con il Bambino in trono tra i Santi Giovanni evangelista e Giovanni Battista della Pinacoteca Comunale di Pietrasanta, datata 1360. Quest’ultima, riferita all’artista da Antonino Caleca e più opportunamente da ritenersi opera di collaborazione nel contesto della bottega,37 rivela consonanze limitate alla sagoma piramidale e alla morfologia del volto di Maria. È interessante notare come nel frangente che vide la genesi della Madonna di Modena sia documentata la lunga gestazione del polittico appaltato dagli agostiniani di Lucca per l’altare maggiore della loro chiesa, di cui non si conoscono le sorti: Francesco riceveva alcuni anticipi sul compenso nel 1348; nel 1352 si giungeva a un nuovo accordo con i committenti e nel 1358 il lavoro non era stato ancora portato a termine, sicché costoro pretendevano il recupero di quanto corrisposto al maestro.38

I connotati degli abiti indossati dai committenti sono in linea con le tendenze del costume in auge tra gli anni cinquanta e sessanta. Copricapi a forma conica come quello del personaggio sulla sinistra si ritrovano nel Martirio di un santo (Altenburg, Lindenau-Museum) licenziato da Francesco negli anni sessanta, così come negli affreschi di Andrea Bonaiuti nel Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella a Firenze (1366-1368). Qui, e in precedenza nella tavola raffigurante Sant’Antonio abate e devoti di Puccio di Simone (1353; Fabriano, Pinacoteca Civica Bruno Molajoli), compare l’abito maschile che culmina in una sorta di soggolo che fascia il collo sino al mento, continuando poi in una cuffia che nasconde le tempie.

Come sopra rilevato, la Madonna della Galleria Estense è stata oggetto di citazioni piuttosto puntuali da parte di un altro esponente della pittura pisana di secondo Trecento, Cecco di Pietro: sia nel già citato polittico di Agnano, databile al 1375 circa,39 sia nello scomparto centrale di un pentittico datato 1386 e diviso tra i musei di Portland e Avignone, ove è ripresa la posa di Gesù,40 a segno dell’esteso potere di influenza esercitato dal dipinto in esame.

STORIA CONSERVATIVA E RESTAURI DOCUMENTATI

1894

Sidonio Centenari

1960 e 1966

Augusto Dall’Aglio

Al momento del suo acquisto l’opera venne definita “ben conservata” da Cavazzoni Pederzini (1863), ma la realtà delle sue condizioni non ingannò l’occhio esperto di Cavalcaselle (1887), per il quale “la pittura ha perito danni, e a malgrado di ciò si riconosce pur sempre che le tinte sono ben fuse fra loro, che il colorito delle carni è chiaro, luminoso e con ombre verdognole e quello delle vesti ha tinta vivace”. Per il conoscitore il dipinto si distingueva altresì per la diligenza della tecnica esecutiva, cui faceva da contrappeso l’estensione di ridipinture come quelle sovrapposte al manto di Maria, “tutto rinnovato”. Seguì nel 1894 un restauro da parte di Sidonio Centenari, di cui fa più tardi menzione Pallucchini (1945). Quest’ultimo registra lo stato complessivamente disagiato, a causa dei ritocchi nei volti della Vergine del Bambino, visibili infatti nelle foto Orlandini41 e Sansoni;42 la firma, aggiunge, appare “quasi del tutto scomparsa”. L’ultimo intervento documentato è quello eseguito da Augusto Dall’Aglio negli anni sessanta del secolo scorso, cui si deve una generale pulitura, che ha lasciato traccia delle condizioni anteriori in un controtassello posto a fianco del donatore, e di fermatura del colore. Alcune reintegrazioni delle lamine dorate sono state realizzate a foglia o a pennello. Un nuovo restauro viene auspicato nella guida della galleria del 1987. Il dipinto è stato sottoposto a verniciatura in tempi recenti.

ALTRE SEZIONI

Storia espositiva

Il dipinto è stato continuativamente esposto in galleria dal tempo della sua acquisizione. Viene inizialmente commentato nel catalogo di Venturi (1882) ed è quindi menzionato nelle guide di Ricci (1925), in quella del 1930 (Una prima visita 1930)43 e nelle successive di Zocca (1933) e Salvini (1955), per essere illustrato nel catalogo di Pallucchini (1945). È altresì citato volumi di Ghidiglia Quintavalle (1959, 1967) e più oltre nella guida curata da Bentini (La Galleria Estense 1987), per essere omesso nel testo di Bonsanti (1977) e nelle guide di Bernardini (2006) e Casciu (2015).

Bibliografia:

L. Pisani, Francesco Traini e la pittura a Pisa nella prima metà del Trecento, Cinisello Balsamo 2020, p. 109.

F. Siddi, scheda in La Galleria di Palazzo Cini. Dipinti, sculture, oggetti d’arte, a cura di A. Bacchi e A. De Marchi, Venezia 2016, pp. 77-79 n. 12 [ca. 1355-1360].

F. Siddi, “Un profilo di Francesco di Neri da Volterra”, in Francesco di Neri da Volterra. La Madonna con il Bambino del Belvedere, a cura di G. Zanelli, Genova 2013, pp. 13, 15-18, 19, fig. 4 [ca. 1355-1360].

L. Pisani, Cecco di Pietro e i fondi oro di Palazzo Blu, catalogo della mostra (Pisa, Palazzo Blu, 24 settembre - 30 ottobre 2011), Firenze 2011, p. 13.

L. Pisani, “Nuove proposte per il polittico di Agnano di Cecco di Pietro”, in Predella, 2010, 1, p. 24 [poco dopo il 1350].

S. Chiodo, scheda in The Alana Collection. Italian Paintings from the 13th to 15th century, a cura di M. Boskovits, Firenze 2009, pp. 67, 68, 70.

S. Weppelmann, scheda in Maestri senesi e toscani nel Lindenau-Museum di Altenburg, a cura di M. Boskovits con la collaborazione di J. Tripps, Siena 2008, p. 222 [ca. 1350].

M. Burresi, A. Caleca, “Arte a Volterra fino al Quattrocento”, in Volterra d’oro e di pietra, catalogo della mostra (Volterra, Palazzo dei Priori e Pinacoteca Comunale, 20 luglio - 1 novembre 2006) a cura di M. Burresi e A. Caleca, Pisa 2006, p. 47.

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  1. Cavazzoni Pederzini 1863, p. 3; Venturi 1882, p. 458. ↩︎

  2. Longhi 1953 (ed. 1975), p. 147. La collocazione presso la collezione della marchesa Scarampi di Pruney a Firenze è specificata sul retro della fotografia del San Giovanni evangelista di Venezia appartenuta allo studioso (Firenze, Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi). Il dipinto lasciò tale raccolta nel 1974 e venne acquistato da Vittorio Cini poco dopo (F. Siddi, in La Galleria 2016, p. 77). Come mi comunica cortesemente Simone Guerriero (Venezia, Fondazione Giorgio Cini), esso non presenta sul verso indicazioni (quali iscrizioni, timbri o sigilli) in merito alla sua provenienza. ↩︎

  3. Venturi 1882, p. 458. Un Giuseppe Giusti, dal quale venne acquistata nel 1874 la Madonna dell’umiltà di Paolo Serafini (inv. 479), è ricordato nello stesso volume (ivi, p. 463). La provenienza dalla collezione Campori registrata in seguito nella guida di Ricci (1925, p. 4) è frutto di un refuso, al pari dell’indicazione della data 1343. ↩︎

  4. Parenti 2005, p. 201, fig. 3. Un sigillo analogo compare sul retro del Martirio di un santo (Giacomo?) del Lindenau-Museum di Altenburg (S. Weppelmann, in Geschichten auf Gold 2005, pp. 196-199). Sull’attività di Francesco di Neri per Lucca, cfr. infra e nota 38. ↩︎

  5. Parenti 2010, p. 9, fig. 4. Un altro sigillo ricorrente nei primi decenni del XIX secolo è quello dell’Amministrazione Generale delle Regie Rendite del Granducato di Toscana, che svolgeva funzioni doganali (Parenti 2005, p. 201, fig. 4), privo tuttavia di palle medicee. ↩︎

  6. Pisani 2010, p. 24. Per quanto concerne i rapporti tra Cecco di Pietro e Francesco di Neri da Volterra, si consideri che nel 1370-1371 il primo figura tra i collaboratori del secondo nei lavori di restauro di alcuni affreschi del Camposanto di Pisa (cfr. nota 7). ↩︎

  7. Per i dati biografici relativi al pittore e il raggio della sua committenza, cfr. i profili di Bagemihl 1996; La Bella 1997; Dehmer 2004; Siddi 2013. ↩︎

  8. Secondo Bagemihl 1996, p. 34 nota 9, e S. Weppelmann, in Maestri senesi 2008, p. 222 e nota 3 (che riporta un analogo parere di M. Boskovits, riferito altresì da S. Chiodo, in The Alana Collection 2009, p. 72 nota 19), i Santi Benedetto e Romualdo del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa, provenienti dalla chiesa San Zeno, potevano essere parte del polittico della chiesa di San Michele in Borgo, firmato e datato 1343 (cfr. nota 33). Entrambe le sedi erano rette dai camaldolesi, per cui una proposta di provenienza non esclude l’altra. L’opera non può invece essere riconosciuta nel pentittico con la Madonna del latte e quattro santi (Pisa, Museo Nazionale di San Matteo), come proposto da Camelliti 2020, p. 234, in quanto non si tratta di un dipinto riconducibile alla mano del maestro volterrano, dal cui catalogo viene escluso nei profili recenti. ↩︎

  9. In seguito l’associazione tra i due scomparti non è mai stata negata, con l’eccezione delle perplessità mostrate da Carli 1961, pp. 52-53. ↩︎

  10. Tipologie simili (archi a sesto acuto doppiati da archeggiature interne) erano state proposte dall’artista nel San Domenico della Quadreria Spano di Ploaghe (da Cagliari, chiesa di San Domenico) e nel Sant’Antonio abate di collezione privata (cfr. Tartuferi 1990, pp. 14-16; Freuler 1991, pp. 50-52) e ritornano nel suo più tardo stendardo di Santa Lucia (Pisa, Palazzo Blu; cfr. C. Balbarini, in Palazzo Blu 2010, pp. 51-53; Pisani 2011, pp. 26-29), nonché nel polittico diviso tra i musei di Portland e Avignone di Cecco di Pietro (cfr. Gordon 2010). ↩︎

  11. Si veda, in specifico, F. Siddi, in La Galleria 2016, pp. 71-75. ↩︎

  12. Cfr. Kanter 1994, pp. 100-103. Le tavolette di Boston, la cui larghezza è di 19,2-19,6 cm, non sarebbero state sufficientemente ampie, allorché abbinate, per figurare sopra gli scomparti laterali del polittico (il San Giovanni evangelista della Galleria di Palazzo Cini è infatti largo 57,8 cm). ↩︎

  13. Ciascuna è infatti ampia 23,6 cm (cfr. Old Master Pictures 1998, p. 115), quindi una coppia di Santi si sarebbe avvicinata alla larghezza adeguata, ma con la mancanza di circa 10 cm. ↩︎

  14. Cfr. la ricomposizione dell’opera proposta da Chiodo 2001; S. De Luca, in La Galleria 2016, pp. 61-67. ↩︎

  15. Si veda, a confronto, la ricostruzione del polittico di Agnano proposta da Pisani 2011, pp. 13-17. ↩︎

  16. I due Santi del Museo Nazionale di San Matteo a Pisa misurano infatti 137,6-138,3 x 45,8-46,5 cm (l’altezza include il secondo registro di santi a mezza figura, con un ingombro di circa 31 cm; comunicazione di Caterina Bay, che ringrazio), il Santo vescovo della collezione Alana a Newark 110 x 39 cm (S. Chiodo, in The Alana Collection 2009, pp. 67-72). ↩︎

  17. Burresi 1986, p. 94 nota 15. Tale misura non comprende l’ingombro dei pilieri alle estremità, aggiunti nella ricomposizione suggerita da Linda Pisani (cfr. nota 15). ↩︎

  18. Sulla particolarità di concezione di questo complesso, cfr. De Marchi 2009, p. 86. ↩︎

  19. Su questi dipinti, cfr. note 10 e 16. Non è nota la provenienza originaria dei quattro Santi di Bartolomeo Bulgarini esposti nel Museo Nazionale di San Matteo, che componevano un pentittico a figure intere. ↩︎

  20. Per le informazioni fornite in questa sezione, cfr. la scheda tecnica di S. Aveni, A. Gatti, Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale (2023). ↩︎

  21. I punzoni utilizzati sono piuttosto comuni. Quello a rombo con bollo interno, applicato nei nimbi degli angeli e nell’orlo della veste di Gesù, si ripresenta nel repertorio di Cecco di Pietro (Skaug 1994, II, nn. 30 e 32). ↩︎

  22. Il motivo decorativo è catalogato da Klesse 1967, p. 451 n. 466. ↩︎

  23. Tale iscrizione ricompare nel nimbo della Vergine della Pietà della Pinacoteca e museo civico di Volterra e della Madonna con il Bambino di collezione privata fiorentina, riferite a Francesco di Neri da Boskovits 1967, pp. 3, 6. ↩︎

  24. Lo conferma Friedmann 1946, p. 97, malgrado il volatile non esibisca la caratteristica macchia rossa nella parte anteriore del capo (nero, come di norma), presente nella traduzione fornita da Cecco di Pietro al centro del polittico di Agnano, basata sulla tavola di Modena (cfr. Provenienza). ↩︎

  25. Cfr. Friedmann 1946; Levi D’Ancona 2001, pp. 79-80. ↩︎

  26. Isidoro di Siviglia, Etymologiarum, XII, 74 (Migne 1878, col. 469); Levi D’Ancona 2001, p. 79. ↩︎

  27. Per Cavazzoni Pederzini 1863, p. 4, si tratta di Dio Padre. Per Cavalcaselle, Crowe 1887, p. 125; van Marle 1925, p. 268; Bietti 1987, p. 46; Dehmer 2004, p. 338, si tratta invece genericamente di un profeta. ↩︎

  28. Tematica al centro della figura e del messaggio del profeta (cfr. Spadafora, Colafranceschi 1966). ↩︎

  29. “[…]NVS E(t) VERBVM CHARO FACTVM EST E(t) EDABITABI”. ↩︎

  30. Da Morrona 1812, p. 430. Cfr. nota 33. ↩︎

  31. A giudizio di Cavalcaselle poteva forse trattarsi di quel Francesco di Neri, pittore di San Pier Maggiore, attestato a Firenze nel 1368, secondo quanto riportato da Gualandi 1845, p. 181. ↩︎

  32. Crowe, Cavalcaselle 1864, pp. 392-395; Cavalcaselle, Crowe 1883, p. 80-84. ↩︎

  33. Le altre due sottoscrizioni note dell’artista sono quelle già presenti nei dispersi polittici di San Michele in Borgo a Pisa (1343) e di Sant’Agostino a San Gimignano (1352): la prima recitava “Franciscus Neri p. me pinsit anno Dni MCCCXXXXIII” (Da Morrona 1812, p. 430), la seconda “Franciscus Nerj de Uulterris me pinxit ano MCCCLII” (De Nicola 1919, p. 96 nota 4; cfr. Bagemihl 1994, p. 161 nota 106; Bagemihl 1996, p. 36 nota 26). ↩︎

  34. Cfr. nota 23. ↩︎

  35. Cfr. nota 13. I due dipinti sono datati da S. Chiodo, in The Alana Collection 2009, p. 70, negli stessi anni della Madonna di Modena. ↩︎

  36. Bellosi 1974, pp. 97, 108 nota 112; Labriola 1998, p. 171. Una datazione precedente viene invece sostenuta da Neri Lusanna 1995, p. 438, e da Caleca 1996, p. 28, con riferimento al 1341-1342, allorché, secondo Vasari, Taddeo lavorò nella chiesa di San Francesco. I riquadri con le storie di Giobbe sono stati in passato riferiti allo stesso Francesco di Neri, in virtù delle connessioni documentarie con i restauri e rifacimenti cui sovrintese il pittore nel 1370-1371 (Crowe, Cavalcaselle 1864, pp. 392-395; Cavalcaselle, Crowe 1883, pp. 80-84). ↩︎

  37. Caleca 1995, pp. 17-18. Per la non piena autografia si sono pronunciate S. Chiodo, in The Alana Collection 2009, pp. 68-70; Siddi 2013, p. 27 nota 70. ↩︎

  38. Non si sa, pertanto, se l’opera sia stata effettivamente condotta a termine. Sulla documentazione si veda Concioni, Ferri, Ghilarducci 1994, pp. 142 n. 422, 299. ↩︎

  39. Pisani 2010, pp. 23-24; Camelliti 2020, pp. 88-94. ↩︎

  40. Gordon 2010. Secondo S. Weppelmann, in Dipinti senesi 2008, p. 222, anche la Madonna con il Bambino in trono e angeli del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.), centro di un trittico proveniente dal Duomo di Pisa (cfr. Weppelmann 2003, pp. 232-237), “si ispira nella postura dei protagonisti” alla tavola in esame. ↩︎

  41. Khvoshinsky, Salmi 1914, fig. 41. ↩︎

  42. Bologna, Fondazione Federico Zeri, inv. 24678. ↩︎

  43. Quest’ultima segnala erroneamente come il dipinto sia datato 1349, così come quella di Ricci aveva riportato la data 1343 (cfr. nota 3). ↩︎

Fig.1, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Immagine del retro della tavola.
Fig. 2, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Dettaglio della firma dell’artista.
Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense
Fig.1, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Immagine del retro della tavola.
Fig. 2, Francesco di Neri da Volterra, Madonna con il Bambino in trono, angeli e donatori, Modena, Galleria Estense. Dettaglio della firma dell’artista.
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