Iscrizioni e timbri: “ecce agnus dei qui tollit
Scheda curatoriale a cura di Mauro Minardi
INTRODUZIONE
La tavola fu verosimilmente eseguita quale opera autonoma, destinata a un contesto religioso dedicato al culto di san Giovanni Battista. La sua provenienza è sconosciuta e non si ricavano sue notizie prima della metà del XX secolo. In quel frangente essa venne restituita da Federico Zeri a Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro. Si tratta di un esempio del linguaggio maturo dell’artista, operoso dagli anni trenta del Quattrocento sino a poco prima della morte sulla costa adriatica tra Pesaro e Ancona, ma anche in alcune località dell’entroterra marchigiano, per le quali realizzò importanti dipinti d’altare.
Nel San Giovanni Battista della Galleria Estense l’eredità della cultura tardogotica permane sotto la volontà di costruire una figura dall’aspetto solenne, sigillata in contorni piuttosto semplificati e linee che scendono a piombo. Il gusto per le sottili notazioni naturalistiche e per i motivi decorativi (oggi solo in parte visibili) diffusi sulle stoffe e nel fondale blu rivela una mentalità cresciuta nell’alveo del gotico estremo, incline ad accogliere solo in superficie gli apporti di quelle novità di inizio Rinascimento che, dopo la metà del secolo, iniziavano a prendere piede nelle Marche appenniniche.
In virtù dei connotati formali l’opera trova la sua collocazione temporale intorno al 1470, ossia tra il polittico della chiesa abbaziale di Santa Croce a Sassoferrato (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche), commissionato verso il 1467, e il San Donnino (già Pesaro, Banca Popolare dell’Adriatico) datato 1472.
STORIA E ICONOGRAFIA
Storia dell’opera
Provenienza
La provenienza è ignota: il dipinto è ricordato per la prima volta nei depositi della Galleria da Nannini (1949), ma non se ne conoscono le modalità e i tempi di acquisizione. È presumibile che esso provenga dal territorio marchigiano e fosse in antico destinato a una chiesa o a una cappella dedicata a san Giovanni Battista. Considerato il raggio d’azione del suo autore, non è esclusa un’origine dall’omonima chiesa ubicata a Pesaro, che nel 1471, ossia in anni prossimi all’esecuzione dell’opera in predicato, vide la realizzazione della pala di Marco Zoppo (oggi divisa tra Berlino, Gemäldegalerie, e Pesaro, Musei Civici). L’edificio, spettante ai francescani osservanti, era stato finanziato da Alessandro Sforza, ma poi abbattuto nel primo Cinquecento.2 In alternativa vi è la zona di Ancona,3 in cui Giovanni Antonio da Pesaro è documentato in età matura e ove morì nel 1475.4 In questa fase il pittore operò altresì sul crinale appenninico, in specie a Sassoferrato, prossima alla città di Fabriano di cui il Battista è il santo patrono.
Funzione originaria
Il dipinto nasce plausibilmente come un’opera autonoma. Al di là delle dimensioni, nelle macchine d’altare prodotte da Giovanni Antonio da Pesaro gli scomparti sono sempre centinati e i santi, incluso il precursore, poggiano di consueto su pedane colorate. Benché nei pannelli di polittici il Battista sia talvolta effigiato nel contesto della sua vita eremitica, l’ambientazione che qui contempla anche l’inserzione di un lembo del fiume Giordano e l’estensione in altezza di questo sfondo di paesaggio (57,8 cm) sconsigliano una simile funzione.
Il San Donnino proveniente dalla pieve di San Michele Arcangelo a Tavullia, presso Pesaro (in seguito di proprietà della Banca Popolare dell’Adriatico; Fig. 1), esibisce dimensioni non di molto superiori (180 x 86 cm) e un analogo fondo non dorato, che si estende sopra un’alta pedana.5 L’altezza è condivisa dal Sant’Albertino da Montone del monastero di Santa Croce di Fonte Avellana presso Serra Sant’Abbondio (181 x 60 cm),6 egualmente iconico e stagliato al di qua di uno sfondo blu. Il confronto con queste tavole a sé stanti dovrebbe porsi come risolutivo in merito alla funzione assunta dall’opera in esame, che è probabile ornasse il lato di un pilastro, come suggerisce il rapporto dimensionale e iconografico con il San Giovanni Battista di Bernardo Daddi nella chiesa di San Martino a Gangalandi (Lastra a Signa): qui in cui il paesaggio eremitico è egualmente solcato da un tratto del Giordano e la piccola scodella è collocata in primo piano.7
Il fondo blu o scuro rientra in una casistica piuttosto diffusa nel Quattrocento marchigiano, coinvolgendo polittici, croci dipinte, tavole singole, tele, stendardi processionali, opere devozionali di piccole dimensioni.8 Nel corpus di Bellinzoni si osserva una paragonabile varietà, in quanto la peculiarità compare nel pentittico della chiesa di Sant’Esuperanzio a Cingoli, in alcune tavolette di predella con figure di Santi, Apostoli e Cristo benedicente (collezione privata), nelle tre cuspidi di polittico raffiguranti la Crocifissione (Avignone, Musée du Petit Palais) e l’Annunciazione (collezione privata), nei pinnacoli dei polittici della chiesa abbaziale di Santa Croce a Sassoferrato (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche; Fig. 4) e del Museo Nazionale del Palazzo di Venezia a Roma, nel San Terenzio (Pesaro, Musei Civici) che costituiva il coperchio della cassa che conteneva le spoglie del martire, nell’Incoronazione della Vergine e santi della Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro (in deposito a Urbino, Galleria Nazionale delle Marche; Fig. 3), oltre che nei succitati San Donnino e Sant’Albertino da Montone.9
Tecnica di esecuzione e stato di conservazione
Il supporto è costituito da una sola asse di legno di conifera (presumibilmente abete), di qualità mediocre, attestata dalla presenza di numerosi nodi e difetti visibili sul verso.10 Tale supporto, leggermente imbarcato, non è stato assottigliato e ha mantenuto le dimensioni originarie, come rivelano le strisce perimetrali non dipinte, oggi coperte da una cornice dorata moderna, il cui appoggio crea uno spessore totale di 4,8 cm.11 Il sistema di contenimento è stato sostituito in tempi abbastanza recenti ed è costituito da tre traverse lignee orizzontali, vincolate con viti e rondelle in prossimità dei bordi superiore e inferiore e al centro (Fig. 2). Vi è traccia dell’ingombro di precedenti traverse, di maggiore ampiezza, situate in alto e in basso. Una spaccatura nella parte inferiore, osservabile altresì sul recto, è trattenuta con incastri a doppia coda di rondine, una filzetta e un lembo di tela; piccole lacune si notano nell’angolo inferiore sinistro e al centro. Alcune anomalie del legno sono state risanate con l’inserzione di tasselli circolari.
A tergo il supporto reca altresì i segni di una pregressa incorniciatura: i margini risultano particolarmente tarlati, con probabilità a causa della prossimità con una diversa specie legnosa più soggetta agli attacchi di insetti xilofagi. L’uniforme sistema di viti è funzionale all’aggancio della cornice.
Per quanto riguarda il recto, il nimbo, che presenta qualche piccola lacuna della doratura, è punzonato con una semplice sequenza di bolli continui lungo il perimetro, doppiata verso l’interno da una serie di piccoli circoli. L’archeggiatura esterna, eseguita a pennello, non è dissimile da quella del già menzionato San Terenzio dei Musei Civici di Pesaro.
Lo sfondo blu è stato ridipinto e, a un’indagine ravvicinata, si rilevano tracce delle stelle dorate a sei punte che lo trapuntavano, creando un effetto simile, benché meno ricco, al fondale dell’Incoronazione della Vergine e santi (Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro, in deposito a Urbino; Fig. 3).12 Anche la decorazione perimetrale ad archetti è probabilmente frutto di un’antica ridipintura su motivi originali,13 al pari della filettatura nera che contorna il mantello del santo. In esso un certo impoverimento della pellicola pittorica è acclarato dalla parziale scomparsa delle velature e degli ornati a palmette e pseudo-vegetali lungo i bordi, eseguiti con l’oro a missione e maggiormente visibili in basso. Alcune lacune sono state reintegrate. Al di sotto della stesura pittorica si intravedono linee a pennello nero, in particolare nel risvolto del tessuto, riconducibili al disegno preparatorio. Lo stato è complessivamente buono.
Iconografia
La raffigurazione del santo segue i tradizionali canoni iconografici. Sotto il mantello san Giovanni Battista veste la consueta pelle “di cammello con una cintura di pelle attorno ai fianchi” (Mc 1,6) e profetizza con il gesto della mano destra la venuta del Messia, fedelmente al testo evangelico (Mt 3,11; Mc 1,7; Lc 3,16; Gv 1,27). Il piano su cui si erge la sua figura, brullo ma rinverdito da esili fiori e pianticelle (tra cui steli di querce con i loro prematuri frutti), allude al deserto ove egli predicava, il rivolo che serpeggia su un lato al fiume Giordano e la ciotola posata a terra al rito del battesimo. Le raffigurazioni offerte da Giovanni Antonio da Pesaro divergono soprattutto in merito all’assenza dell’ambientazione paesaggistica: si tratta, in ordine cronologico, della tavola (Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) parte del polittico già nella chiesa di Sant’Amico presso Jesi,14 di quello (già Roma, collezione Ruffo della Scaletta) in origine appartenente a un trittico forse destinato alla chiesa di Santa Maria di San Marco a Pesaro,15 ove è replicato l’attributo della ciotola, che in questo caso il santo tiene in mano, e della pala di Sant’Aiuto (Pesaro, collezione privata),16 ove il precursore esibisce un mantello similmente violaceo, sebbene in una tonalità più chiara. Nel campo della pittura a fresco si annovera la figurazione della chiesa di Santa Maria di Piazza a Pergola, in cui il Battista compare a fianco di altri santi, a lato dell’episodio della Crocifissione.17
Tra le peculiarità del dipinto modenese vi è il trattamento dello sfondo blu che, ornato di stelle pressoché scomparse (cfr. Tecnica di esecuzione e stato di conservazione) e delimitato da una cornicetta ad archetti, sortisce l’aspetto di un tessuto appeso, di fronte al quale si staglia l’ascetica figura del Battista. L’associazione tra prato fiorito e fondale punteggiato di minuti inserti decorativi è condivisa dalla sopra citata Incoronazione della Vergine e santi (Pesaro, Fondazione Cassa di Risparmio di Pesaro), attualmente esposta presso la Galleria Nazionale delle Marche a Urbino (Fig. 3).18
Attribuzione, commento critico e datazione
L’opera è stata resa nota da Marco Nannini (1949) con l’attribuzione a un anonimo artista marchigiano che, prossimo al frescante dell’abbazia farfense di Santa Vittoria in Matenano, appartiene all’ambito dei pittori fabrianesi e soprattutto di Giovanni Antonio da Pesaro. Solo un anno prima era uscito l’articolo di Federico Zeri che stilava un primo chiaro profilo di questa personalità.19 La corretta assegnazione a quest’ultimo, figlio di un pittore che discendeva dalla famiglia parmense dei Bellinzoni, venne comunicata dallo stesso Zeri alla Galleria Estense ed è registrata nella guida di Roberto Salvini (1955).20 Paride Berardi (1988) accolse in seguito un suggerimento verbale dello studioso a favore di una datazione nel settimo decennio del Quattrocento.
La figura longilinea si adegua ai canoni formali propri della maturità del pittore, come iniziano a esprimersi nel succitato trittico, datato 1463, già a Pesaro e oggi diviso tra l’Ashmolean Museum di Oxford e una collezione privata.21 I contorni tendono a semplificarsi e i personaggi si allungano verso l’alto, pur mantenendo, simili a carte da gioco, una quasi araldica bidimensionalità che, a fianco del gusto decorativo, delle minute osservazioni botaniche, è indicativa del mentalità tardogotica che permea l’intera vicenda dell’artista marchigiano. Nel polittico realizzato per l’abbazia di Santa Croce a Sassoferrato (Urbino, Galleria Nazionale delle Marche; Fig. 4), la sua più impegnata opera su tavola, che ragioni di committenza e stile suggeriscono di datare verso il 1467-1470,22 tale retaggio non viene meno, nei compiaciuti ricaschi e risvolti dei panneggi, nelle dorature, perfino nell’uso delle lettere in gotica minuscola (in luogo dell’ormai diffusa adozione delle lettere capitali), ancora visibile nell’ultima opera documentata, la cosiddetta pala di Sant’Aiuto del 1473 (Pesaro, collezione privata),23 anteriore di due anni alla scomparsa di Giovanni Antonio.
Per quanto concerne alcune soluzioni specifiche, il parterre roccioso fratto in scaglie che si interrompono in primo piano è consono a un gusto che il pittore manifesta, nella sua prima fase, in due tavolette con i Supplizi di San Biagio (Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia e collezione privata)24 e più oltre nelle Crocifissioni al sommo del polittico di Sassoferrato e del trittico già a Serra de’ Conti; quest’ultimo (oggi a Roma, Museo Nazionale del Palazzo di Venezia) databile intorno al 1470 o poco più oltre.25 Anche i motivi ornamentali stampigliati sulle stoffe fanno parte di un ampio repertorio, che include pattern in genere più complessi, che simulano damaschi o broccati. Le palmette che qui decorano il mantello dell’anacoreta sono simili a quelle del manto di Maria nella già menzionata pala del 1473 e la tonalità di viola che colora lo stesso tessuto ricorre in maniera costante nella produzione del maestro pesarese, a conferma di una tendenza a servirsi di determinate soluzioni destinate a riprodursi con poche varianti.
Sugli scarsi aggiornamenti figurativi che, dopo il 1460, coinvolsero il Bellinzoni può segnalarsi l’influsso di Antonio da Fabriano, che non è fuori luogo ritenere responsabile dell’aspetto più levigato delle superfici e dell’asciuttezza delle figure,26 elementi di cui il San Giovanni Battista di Modena è una tra le testimonianze note. Ciò è coerente con il raggio di attività dell’artista, che in tale frangente conosce incursioni significative nell’entroterra marchigiano, nella zona di Sassoferrato, ove questi collocò imponenti dipinti d’altare ed eseguì alcuni affreschi, benché la documentazione sinora attesti la sua presenza solo sul litorale tra Pesaro e Ancona.27
Anche il tipo di pieghe inamidate che scendono a piombo, con punte e anse triangolate che lasciano in evidenza il risvolto di un diverso colore, ribadisce una scadenza temporale piuttosto avanzata, che può fissarsi a cavallo fra gli anni sessanta e settanta. Se il polittico di Sassoferrato – che sul versante stilistico segue una linea di evoluzione avviata con la Madonna della Misericordia della chiesa di Santa Maria dell’Arzilla Pesaro (1462)28 e il trittico di San Marco (1463) – venne commissionato intorno al 1467, l’esecuzione del San Giovanni Battista può porsi nel lustro corrente tra questa data e il 1472, data iscritta nel San Donnino già presso la Banca Popolare dell’Adriatico (Fig. 1).29 Il confronto con la figura di San Paolo nel primo complesso e con l’iconico giovane martire appare esaustivo. La pala del 1473 in raccolta privata ci mostra, forse nel tentativo di adeguarsi a un nuovo ideale di monumentalità, personaggi a paragone più corpulenti, che non inducono a posticipare la datazione della tavola in predicato.
STORIA CONSERVATIVA E RESTAURI DOCUMENTATI
Le condizioni del dipinto poco prima della metà del Novecento sono testimoniate dalla fotografia edita da Nannini (1949), che mostra alcune lacune, non reintegrate, localizzate in corrispondenza della testa del santo e sul lato superiore destro del fondale. Uno stato analogo, che dà evidenza ad altre piccole cadute, è attestato da una fotografia della Soprintendenza per i beni artistici e storici di Modena e Reggio Emilia (neg. 26). Nannini riporta come, in occasione del recupero nei magazzini della Galleria, la tavola venne “ripulita a dovere”, risultando pertanto “in discreta conservazione”. Un’altra immagine, scattata dallo Studio fotografico Bandieri di Modena, registra uno stato in cui le suddette mancanze sono celate da ritocchi e l’opera appare inclusa nella cornice che esibisce oggi.30 In data imprecisata la superficie tergale è stata trattata con la stesura di un materiale di natura gessosa, applicata nelle zone maggiormente interessate dagli attacchi di insetti xilofagi e da difetti del legno. Un restauro, non documentato, è stato eseguito nei decenni posteriori, consegnandoci l’aspetto attuale: le lacune sulla testa e sulla barba del Battista, nella parte superiore del nimbo e sopra il bordo inferiore destro sono state colmate con tonalità neutre e in sottotono; alcuni precedenti ritocchi a mimetico non sono stati asportati.
ALTRE SEZIONI
Storia espositiva
Come riferisce Nannini (1949), la tavola venne estratta dal “dimenticatoio del magazzeno” grazie al “buon fiuto di Roberto Salvini”, che tra il 1945 e il 1947 aveva disposto un riordinamento delle opere esposte.31 Da quel momento essa ha fatto il suo ingresso nelle sale della Galleria, ove è ricordata nella guida dello stesso Salvini (1955), quindi da Ghidiglia Quintavalle (1967) e infine da Bietti nella guida del 1987 curata da Bentini.
Bibliografia
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S. Partsch, “Bellinzoni”, in Allgemeines Künstler-Lexikon, 8, München-Leipzig 1994, p. 497 [attribuito a Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro, ca. 1460-1470].
P. Berardi, Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro, Bologna 1988, pp. 146-147, fig. 70 [Giovanni Antonio Bellinzoni da Pesaro, ca. 1460-1470].
M. Bietti, “I primitivi”, in La Galleria Estense di Modena. Guida illustrata, a cura di J. Bentini, Bologna 1987, p. 48 [Giovanni Antonio da Pesaro, “fase mediana e matura”; saletta I].
A. Ghidiglia Quintavalle, La Galleria Estense di Modena, Roma 1967, p. 12 [Giovanni Antonio da Pesaro; sala III].
R. Salvini, La Galleria Estense di Modena, Roma 1955, p. 36 [Giovanni Antonio da Pesaro; sala III].
M. Nannini, “Sulla Tavola «San Giovanni Battista» di scuola marchigiana della Galleria Estense”, in Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le antiche Province Modenesi, II, 1949, pp. 113-115 [“ignoto artista Quattrocentesco, provinciale marchigiano”].
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Palazzo Montani Antaldi 2013 = Palazzo Montani Antaldi. Le collezioni d’arte. Dipinti e sculture. Ceramiche. Disegni e incisioni, a cura di A.M. Ambrosini Massari, Ancona 2013.
Piero e Urbino 1992 = Piero e Urbino. Piero e le corti rinascimentali, catalogo della mostra (Urbino, Palazzo Ducale e Oratorio di San Giovanni Battista, 24 luglio - 31 ottobre 1992) a cura di P. Dal Poggetto, Venezia 1992.
Pirani 1998 = V. Pirani, Le chiese di Ancona, Ancona 1998.
Il potere 2001 = Il potere, le arti, la guerra. Lo splendore dei Malatesta, catalogo della mostra (Rimini, Castel Sismondo, 3 marzo - 15 giugno 2001) a cura di R. Bartoli, A. Donati e E. Gamba, Milano 2001
Valazzi 1989 = M.R. Valazzi, “Pittori e pitture a Pesaro nel Quattrocento”, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, a cura di M.R. Valazzi, Venezia 1989, pp. 305-356.
Valazzi 2004 = M.R. Valazzi, “Un ritorno, una scoperta: le ragioni di una mostra”, in Tardogotico e Rinascimento a Pergola. Testimonianze artistiche dai Malatesta ai Montefeltro, catalogo della mostra (Pergola, Museo dei Bronzi Dorati e della Città di Pergola, 29 maggio - 7 novembre 2004) a cura di M. Baldelli, Pergola 2004, pp. 17-22.
Valazzi 2006 = M.R. Valazzi, “L’affresco quattrocentesco della chiesa di Santa Maria di Piazza a Pergola”, in Rimarcando. Bollettino, 1, 2006, pp. 146-150.
Zeri 1948 (ed. 1992) = F. Zeri, “Giovanni Antonio da Pesaro”, in Proporzioni, II, 1948, riedito in Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull’arte dell’Italia centrale e meridionale dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1992, pp. 105-107.
Zeri 1976 (ed. 1992) = F. Zeri, “Per Giovanni Antonio da Pesaro”, in Paragone, XXVII, 1976, 317-319, riedito in Giorno per giorno nella pittura. Scritti sull’arte dell’Italia centrale e meridionale dal Trecento al primo Cinquecento, Torino 1992, pp. 109-110.
La fotografia pubblicata da Nannini (1949) mostra la presenza di un altro cartellino che, posto sul recto, nell’angolo inferiore destro, reca un numero d’inventario, non bene decifrabile (forse 2815). L’inserto è stato successivamente asportato. ↩︎
Valazzi 1989, pp. 313, 318. Un elenco di alcuni dipinti conservati nella nuova chiesa di San Giovanni Battista, ove furono trasportati i beni di quella soppressa, venne stilato da M. Oretti, Pitture nella Città di Pesaro, 1777, ms. B 165 II presso la Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio di Bologna, fasc. F, cc. 12-14, ma con la sola indicazione delle opere siglate. Presso il Duomo di Pesaro esisteva una cappella dedicata al Battista (Becci 1783, p. 25). ↩︎
Varie sono qui le chiese intitolate al precursore, benché poche risalenti per origine e dedicazione al tardo Medioevo (Pirani 1998, pp. 68-76). ↩︎
Cfr. nota 27. ↩︎
Cfr. A.M. Ambrosini Massari, in Banca Popolare 2003, pp. 4-7. ↩︎
Inizialmente illustrato da Fontana 1979, pp. 14-16, come opera di Antonio Alberti, il dipinto, già identificato come Sant’Albertino da Gubbio (sulla base dell’indicazione di Kaftal 1965, col. 36), è stato riferito a Bellinzoni da M. Minardi, in Il potere 2001, p. 204. ↩︎
Offner 2001, pp. 231-236. Il dipinto, datato 1346, costituisce uno tra i primi esempi del genere della tavola da pilastro (ivi, p. 222 nota 1; De Marchi 2012, pp. 45-46). ↩︎
Vista la diversità dei generi, sarebbe utile un repertorio che raccogliesse e discutesse le numerose testimonianze di questa tipologia. Cito qui alcuni esempi, che convergono per lo più nella zona di Fabriano. Per quanto concerne i polittici, ricordo il trittico del Maestro di San Verecondo di cui sopravvivono due pannelli (Bologna, Pinacoteca Nazionale, invv. 313, 314), quello del Maestro di Staffolo (Fabriano, Pinacoteca Civica Bruno Molajoli) e il singolare trittico ad ante mobili ipoteticamente formato dalla Madonna col Bambino di Gentile Bellini, la serie di Santi di Jacopo Bellini (entrambe a Matelica, Museo Piersanti) e due Angeli oranti di Luca di Paolo da Matelica (Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini, inv. 2530); per i dipinti autonomi destinati ad altari: Nicola di Ulisse da Siena, Sant’Andrea interviene nella battaglia tra ginesini e fermani (San Ginesio, Museo e Pinacoteca Scipione Gentili); per le croci stazionali: Antonio da Fabriano, Matelica, Museo Piersanti (1452); per le pale d’altare: Luca di Paolo da Matelica, Crocifissione e storie della croce (Matelica, Museo Piersanti); per i dipinti su tela: Anonimo fabrianese, San Romualdo (Fabriano, chiesa dei Santi Biagio e Romualdo); per gli stendardi processionali: Antonio da Fabriano, Madonna della Misericordia e Santi (Milano, Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori); per altri tipi di tavole devozionali: Maestro di San Verecondo, San Francesco tra due disciplinati e Trigramma (Matelica, Museo Piersanti; non è escluso che il dipinto costituisse un piccolo stendardo); Francesco di Gentile, Vir dolorum (Washington, D.C., Dumbarton Oaks, inv. HC.P.1936.16). ↩︎
Su questi dipinti, cfr. Berardi 1988, pp. 57-59, 72-81, 86-90, 123-134, 142-144; M. Minardi, in Altomani & Sons 2003, cat. 2; Laclotte, Moench 2005, p. 108 n. 98; supra nota 5 e infra, Attribuzione, commento critico e datazione. ↩︎
Per le informazioni fornite in questa sezione, cfr. la scheda tecnica di S. Aveni e A. Gatti, Centro Conservazione e Restauro La Venaria Reale (2023). ↩︎
Tale cornice non compare nelle prime riproduzioni fotografiche del dipinto, databili al 1948-1949 (Nannini 1949 e Modena, Soprintendenza per i beni artistici e storici di Modena e Reggio Emilia, neg. 26; cfr. Storia conservativa e restauri documentati). ↩︎
Cfr. nota 18. ↩︎
Un motivo simile circonda il fondo scuro di una tavoletta opistografa del Museo Piersanti a Matelica, opera tardogotica riferibile al Maestro di San Verecondo (cfr. M. Minardi, in Fioritura tardogotica 1998, pp. 268-269 n. 104; A. Delpriori, in Delpriori, Mazzalupi 2015, pp. 60-61 n. 6). ↩︎
Cfr. Berardi 1988, pp. 53-56. ↩︎
Cfr. Zeri 1976 (ed. 1992); Lloyd 1977, pp. 82-84; Berardi 1988, pp. 114-118. ↩︎
Cfr. G.M. Fachechi, in Fioritura tardogotica 1998, p. 338 n. 135. ↩︎
Cfr. Valazzi 2004, pp. 19-21; Ead. 2006. ↩︎
Si tratta, non diversamente dal San Giovanni Battista della Galleria Estense, di un esito avanzato dell’attività del Bellinzoni, databile tra il 1463 e la fine del decennio (cfr. M. Minardi, in Arte francescana 2007, pp. 190-191 n. 54; A.M. Ambrosini Massari, in Palazzo Montani Antaldi 2013, pp. 81-82 n. 1). ↩︎
Zeri 1948 (ed. 1992). ↩︎
Nel fascicolo dedicato a Giovanni Antonio da Pesaro (Bologna, Fondazione Federico Zeri) le immagini dell’opera sono accompagnate da una lettera, datata 12 settembre 1949 (inv. F960), che comunica l’invio di una fotografia da parte di Roberto Salvini, al quale dovette seguire il responso dello studioso. ↩︎
Cfr. nota 15. ↩︎
Minardi 2019, pp. 11-19. ↩︎
Cfr. nota 16. ↩︎
Cfr. Berardi 1988, pp. 41-46; Mazzalupi 2008a, p. 180. ↩︎
Cfr. Minardi 2019, pp. 21-22. Per la configurazione della predella, cfr. Moretti 2022, sebbene la proposta urti con il differente tenore stilistico delle tavolette aggregate al polittico, che appare più antico. ↩︎
Cfr. M. Minardi, in Altomani & Sons 2003, cat. 2; Id., in Arte francescana 2007, p. 191. ↩︎
Per la documentazione sul pittore, si vedano Berardi 1988, pp. 33, 182-185; Id. 2000, pp. 45-49; Mazzalupi 2008b, pp. 343 doc. 168, 347 doc. 255, 350 doc. 331, 351 doc. 339, 353 doc. 366, 355 docc. 417, 420-422. ↩︎
Cfr. M.R. Valazzi, in Piero e Urbino 1992, pp. 412-413 n. 87. ↩︎
Cfr. nota 5. ↩︎
Le fotografie della Soprintendenza modenese e dello Studio Bandieri sono visibili nel sito della Fondazione Federico Zeri: http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/entry/work/20833/Giovanni Antonio da Pesaro%2C San Giovanni Battista (consultato nell’ottobre 2023). ↩︎
Ghidiglia Quintavalle 1959, p. 12. ↩︎